27.11.2003
Vanity Fair n. 2003
Vai pure a vivere da sola ma non rinunciare all’affetto dei tuoi
Ciao Mina,ho 21 anni e ho un problema coi miei genitori. Due anni fa me ne sono andata da casa dei miei a Roma per andare ad abitare con una mia zia in provincia di Massa Carrara. L’ho dovuto fare perché non andavo assolutamente d’accordo con mio padre e a periodi nenche con mia madre. E ora, lontana, sto molto meglio rispetto a prima.I rapporti coi miei non sono rotti del tutto, anzi. Questo fine settimana sono andata a trovarli a Roma. Non l’avessi mai fatto: è stato un inferno! Il fatto è che non riesco proprio a sopportarli, dopo un giorno che stiamo sotto lo stesso tetto comincio ad accumulare rabbia repressa, mi torna la depressione, mi si ripresentano tutti i fantasmi del malessere che avevo quando abitavo con loro e ridivento una persona di merda. Sempre incavolata, musona, solitaria. E nonostante questo gli voglio un gran bene. Ai miei genitori, intendo. L’ho capito in questi mesi di lontananza. Altrimenti non ci starei così male, no? Non mi sentirei in colpa, non mi dispiacerebbe di essere insopportabile con loro.Fatto sta che ora mi è venuta una voglia matta di tornare ad abitare a Roma, e neanche io so perché. Forse, in parte, è per un ragazzo romano che ho conosciuto quest’estate a Rimini. Ma non può essere solo questo. Dopo quest’ultimo weekend, comunque, sono quasi sicura che non potrei tornare coi miei genitori. Magari potrei stabilirmi in una casa nei paraggi, in affitto con altre ragazze. Ma non sono convinta che sia una buona idea. Tu cosa mi consigli di fare? Perché non riesco a vivere con i miei?Claudia
Non è sconveniente vivere in un posto diverso da quello dei genitori. Mi sembra invece utile che tu ti arrangi. Proverai la difficoltà e il piacere di farcela. Potrebbe essere il momento in cui ti affrancherai dal cruccio del conflitto con te stessa e con loro. Nella “Lettera al padre”, Kafka si arrabatta per riconoscere tutti i motivi per potere amare colui che, in realtà, lo ha condizionato e oppresso fin dall’infanzia. La sua è un’operazione disperata e riesce solo a tratti ad ammettere a se stesso che una forma di amore obbligatorio lo guida. A suo padre deve comunque parlare. Anche il più strano tra i rapporti fra genitori e figli contiene, in mezzo alle controversie, lo spunto per la tenerezza. Si tratta di cercare con calma e non necessariamente all’interno della convivenza. Parafrasando chi si riferiva ad ambiti più ampi di quelli di una famiglia, non chiederti cosa i tuoi dovrebbero fare per te ma cosa tu potresti fare per loro.
Poeti del tifo, interisti di tutto il mondo: unitevi!
Cara Mina,è risaputo che sei interista. Sono con te a condividere la delusione di questi anni bui . Le lacrime di Ronaldo in quel 5 maggio più triste di quello celebrato da Alessandro Manzoni. Lo scudetto possibile, catartico andato in fumo sull’erba dell’Olimpico. Memoria pesante. Quell’evento è stato l’inizio di un attacco continuo ai tifosi con un’ironia che piano piano ci ha demoralizzato. SMS, messaggi e-mail, battute metropolitane, con l’insistenza di un serial settimanale, si sono abbattute su di noi nostalgici, decaduti padroni del calcio mondiale. Non abbiamo più potuto partecipare all’alternanza che solitamente si verifica sulle vette del calcio e quindi alle schermaglie degli sfottò. Ti urlo, disperato, di aiutarmi a sopportare e a preparare la “vendetta”.Gianluca T., Milano
Mi sto preparando e soffoco la rabbia in un operoso lavorio compositivo. Come oscuri cospiratori dobbiamo cominciare tutti, fin da ora, a preparare la riscossa. Sempre col sorriso, però, mi raccomando. Intanto che Moratti e Zaccheroni costruiscono le rivincite tecniche, noi, poeti del tifo, abbiamo il dovere di ideare una valanga di battute anti-tuttiglialtri da sfoderare al momento giusto. Interisti unitevi. Chi come noi ha goduto al suono della formazione dei sogni “Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi eccetera” non può non avere fantasia e consapevolezza di potenza.
Si parla del Crocifisso ma troppo poco dell’Uomo che ci sta sopra
Cara Mina, sono sicura che hai seguito in questo periodo la guerra di religione che si è scatenata sulla questione del crocifisso. Si è data la parola a una folta schiera di “comari” televisive, è stata invocata la Costituzione, sono intervenuti il Presidente Ciampi, il Papa. Ma non pensi che si sarebbe dovuta dare la parola a Cristo stesso? Magari consultando i Vangeli e meditando sui seguenti, illuminanti passi. Giovanni 13,34: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri”. Matteo 5,43-47: “Avete inteso che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori ... Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?”.Mi chiedo e ti chiedo: perché accalorarsi tanto per osservare un comando che Gesù non ha dato (tenere appeso il crocifisso alla parete) e ignorare invece il suo preciso invito a mettere in pratica l’amore cristiano?Purtroppo “in hoc signo” sono state perpetrate e commesse, nel corso dei secoli, tremende atrocità e questa puntigliosa diatriba sulla croce credo sia un’ulteriore conferma della millenaria ipocrisia farisaica che (come ebbe a dire quell’uomo davvero grande) porta a scolare il moscerino e inghiottire il cammello.Lina, Cuneo
Devo proprio dirtelo: poni la questione in un modo al cui confronto i sublimi condensati di ovvietà di Catalano sembrano dei trattati di filosofia teoretica.
Provo a farmi capire rigirandoti la domanda che mi fai. Perché accalorarsi tanto per le presunte avventure omosessuali del principe Carlo d’Inghilterra, piuttosto che mettere in pratica l’amore cristiano? Perché occuparsi delle perenni diatribe tra Bossi e Fini, degli errori arbitrali, della sfida tra Bonolis e “Striscia”, e ignorare poi di vivere secondo la logica dell’amore?
Dico questo perché occorre rimettere in ordine gli argomenti, per evitare di fare i soliti risotti, in cui ogni ingrediente si confonde nell’altro, o di trovarci inesorabilmente nella notte nera in cui tutte le vacche sono nere.
Nessuno si sarebbe sognato di sollevare tutto il clamore sul Crocifisso, se non ci fosse stata un’azione giudiziaria per opera di un sedicente islamico dal nome inglese e dall’ego debordante, inversamente proporzionale al consenso che ha anche presso i suoi correligionari. Uno che maneggia e brandisce il Corano come Di Pietro la grammatica, ma che fa auditelisticamente felici i padroni di casa di tutti i talk-show, che se lo sono contesi come il perfetto esemplare del telemusulmano cattivo e attaccabrighe.
Tutto si sarebbe spento, se il can can mediatico, fiutando l’affare, non si fosse avventato sulla vicenda, finendo così per riproporre il caso, in tutta la sua banalissima ritualità condita in salsa catodica. La vicenda tutta provinciale di un paesino dell’Abruzzo, di cui nessuno, tranne gli abitanti, conosceva l’esistenza, diventa il Viagra di tutti quelli che amano imbastire le loro danze sciamaniche intorno ai sacri roghi delle polemiche. Come il pillolone azzurro che trasforma le virgole in punti esclamativi, i tenutari dei salotti televisivi sono riusciti nell’impresa di gonfiare una questione che ha dato la stura a tutti i vecchi mangiapreti, che solitamente se ne stanno nascosti, per ripetere il logoro schema della laicità dello Stato. E, cosa ben più grave, sono tornate a galla tutte le paure, rinfocolate dai celoduristi padani, del musulmano che arriva a portarci via le nostre tradizioni più care. Tra i cattolici, invece, a parte qualche intemperanza in perfetto stile crociato, la prudenza è calata pesantissima: meglio temporeggiare, in attesa della sentenza definitiva. E l’intelligenza e la moderazione, queste sconosciute, se ne stanno a guardare.
Certo è che, in tutto il gran parlare, l’attenzione è stata concentrata sul simbolo, sul legno a due braccia, e poco o nulla si è detto dell’Uomo che su quel legno di trova inchiodato. Un’occasione persa.