20.11.2003
Vanity Fair n. 2003
Un hobby da condividere per cancellare tutti i sensi di colpa
Cara Mina,sono un collezionista di penne stilografiche. Sembra una banalità, lo so, ma lo confesso come un peccato perché la mia è un’ossessione, che vivo male, di nascosto a mia moglie. Come faccio a dirle che, mentre risparmiamo per le vacanze estive con la nostra bambina, io spendo mille, duemila euro per il piacere di aggiungere al mio cassetto quel pezzo raro che sogno da tanto? Lo so che non uccido nessuno. È un lusso che mi concedo una o due volte l’anno, dopo aver messo da parte (in segreto) la somma. A lei dico che la penna l’ho pagata dieci volte meno. Non potrei essere sincero, non capirebbe, non condividerebbe. Ma mi sento male a comportarmi così, come un ladro.Ettore, Vicenza
L’hobby e il senso di colpa. Il problema non è come sbarazzarsi dell’uno o dell’altro, ma come riuscire a separarli o almeno a ridimensionarli. Prima di tutto, trattasi di passione innocente, caro Ettore. La penna stilografica come oggetto del desiderio mi appare romanticamente accettabile. Anche da parte di tua moglie.
Svelarle il segreto è la via per cercare comprensione. E questo potrebbe essere il progetto risolutivo. Se non ti vergognerai del tuo cassetto delle meraviglie, se mostrerai, felice e soddisfatto, i pezzi della tua collezione, se non ti fermerai spaventato davanti alla naturale espressione di stupore, riceverai sicuramente la famosa comprensione.
Potrai anche organizzare per l’occasione un piccolo spettacolino per tua figlia, facendo volare su un foglio di carta i pennini. Quelli morbidi che spandono inchiostro lasciando segni più o meno larghi, ubbidendo alla modulazione della pressione che la mano esercita. Quelli più rigidi che scricchiolano un po’, che delizia!, quando devono sbizzarrirsi nelle evoluzioni verticali della elle e della effe. Riceverai un applauso. E ti sentirai disposto a concedere un viaggetto in più alla famiglia. Se tutto è condiviso, tutto sarà più emozionante.
Un mio amico vendette la propria adorata collezione di penne per risolvere un problema economico. Spero proprio che a te questo non succeda. Ma, eventualmente, per indorare la pillola a tua moglie, puoi anche esaltare l’utilità della collezione, configurandola come un avveduto impiego di capitale.
Quando arriverà l’amore te ne accorgerai
Cara Mina,ho 24 anni e sono single, dopo aver rotto con un ragazzo straniero: troppe corna, troppe ambiguità. Tra lavoro e studio la mia vita è piena e non mi pento della mia scelta. Sono single e a dire la verità non mi dispiace. Ma tra un po’ dovrò laurearmi, andar via di casa, trovarmi un lavoro. Tutte decisioni che mi duole “prendere da sola”. Avrei voglia di un compagno, per il mio futuro.Ma cos’è che mi spinge ad “accoppiarmi”? È giusto che io voglia un uomo solo perché lo sento necessario? Non rischierò di scegliere quello sbagliato, se lo cerco come si cerca una casa, o un vestito?Alessia
L’esigenza di “accoppiarsi”, come la chiami tu, è assolutamente naturale. Ma non c’entra con le decisioni da prendere. Mi sembrano espressioni indipendenti.
Il primo obiettivo della vita di una ragazza giovane come te dovrebbe essere la costruzione dell’autosufficienza, unico preludio alla libertà. Potrai cercare indifferentemente case, vestiti, amori, amicizie e scegliere da un punto di forza. E potrai permetterti anche di scegliere l’uomo sbagliato senza disperarti nello scoprirlo. I pretendenti al tuo cuore si presenteranno come una cavalleria di principi azzurri al galoppo sopra una piana asciutta, in una nube di colori tenui, di manti svolazzanti e di polvere.
Solo se sarai realmente tranquilla, non ti farai coinvolgere dall’emozione del rumore assordante che si avvicina. Riconoscerai sicuramente la faccia di quello che arriva apposta per te, per come sei. E non perché hai bisogno di qualcuno a caso.
Indiani e cowboy? No, molto meglio Dante e Benigni
Cara Mina,quando ho letto le parole di Alison, l’americana presa di mira dagli italiani “pacifisti”, mi sono identificata. Io sono italiana al 100 per 100, ma ho lo stesso problema perché non ho mai nascosto la mia ammirazione per gli Stati Uniti. Mi sono ritrovata sola, fra vessilli comunisti, arcobaleno e di Guevara. Che, per quanto lo ammiri, di pacifista non ha proprio nulla. Non sto in pace nemmeno nel “fare del bene”, perché subito ti viene sottolineata un’incompatibilità tra l’idea capitalista e l’essere caritatevole. Sembra che solo se porti una bandiera rossa sei degno di condividere e aiutare. Che tristezza, nel vedere le bandiere americane date alle fiamme. Gli italiani hanno dimenticato che la nostra storia avrebbe potuto seguire la stessa triste evoluzione di quella di altri paesi europei. Eppure gli States non fanno schifo a nessuno quando di tratta di fare un master in una prestigiosa università, o un’esperienza di lavoro, quando ci danno la possibilità di realizzare un sogno. L’hanno data, quella possibilità, perfino agli assassini dell’11 settembre, ospitandoli, istruendoli. E allora chi siamo noi per dire che l’America quell’attentato se lo è meritato? Noi che siamo così poco aperti a una realtà multietnica? Noi che non sappiamo distinguere un presidente dal suo popolo? Noi che invece di guardare nel cuore della gente ci fermiamo al colore della pelle e della bandiera?Magda, Milano
Ci arrabattiamo per delle piccole cose, il più delle volte meschine. Bandierine e distintivi ridotti a segni del nulla, come conforto ai nostri bisogni di schierarci. Come se non bastassero le sciarpe delle squadre di calcio, le griffe sugli abiti sempre troppo uguali a se stessi, le cravatte verde shocking, le bandiere alle finestre e le effigi dei redentori umani sulle magliette, abbiamo brandito anche il Crocifisso per proclamare da che parte stiamo.
Ogni tanto arriva un guastafeste, come quel condomino che pretende di fare applicare le regole che però lui stesso cerca di piegare al suo capriccio.. Ci fa spostare la bicicletta appoggiata al muro, perché nessuno deve avere privilegi. E per far valere i suoi diritti, coinvolge giudici e avvocati. Pretende che tutti siano uguali, ma lui per primo cerca di distinguersi con simboli che rappresentano solo lui.
Non si va da nessuna parte, così. O meglio, si va solo nel campetto di quando eravamo bambini, per continuare a trastullarci con il giochino infantile degli indiani e dei cowboy.
Un’identità c’è, e magari anche un’appartenenza. Ma non come paravento da sbandierare. Recentemente Roberto Benigni è andato negli Stati Uniti a leggere Dante. L’ha spiegato in inglese e poi l’ha letto in italiano. Alla fine, dopo quasi due ore, i tremila americani che l’hanno ascoltato a Chicago l’hanno applaudito a lungo, in standing ovation. Un elemento di identità specifica, come è Dante per l’Italia, viene offerto a chi ha un’altra tradizione, come possibilità di maggiore comprensione. Solo così si fa un passo in avanti. Quando la mia ricchezza diventa anche tua.
Comunicare via computer è sinonimo di paura
Cara Mina,sentivo ieri alla televisione che nei rapporti virtuali, cioè tramite una chat line, via computer, si vive più che altro un rapporto intimo con se stessi, con le proprie fantasie. Parlare con qualcuno che non ti conosce avrebbe lo stesso valore di un diario, una sottile gratificazione personale, il piacere di raccontarsi, liberarsi, e la speranza di conquistare, affascinare con poche righe, poche frasi che colgano l’effetto immaginato.È per questo, mi chiedo, che ti scrivo? O per scoprire che dietro lo schermo esiste ancora un lato di noi capace di comunicare, di aprirsi davvero?Lorenzo ‘77
Temo veramente che questo nuovo metodo di comunicazione sia il segno del coraggio perduto. Da una parte la paura di guardarsi dentro in silenzio e privatamente giudicarsi. Dall’altra, lo sgomento di ricevere uno sguardo, benevolo o accusatorio che sia, da mettere in relazione ad una parola detta o ad un gesto compiuto. È una illusione pericolosa, quella del rapporto impersonale mediato da un display.
La grande montagna dell’alibi e la fossa profonda dell’assenza di responsabilità guidano l’uomo alla spersonificazione e lo indeboliscono fino a renderlo improteggibile da se stesso e dagli altri. La voglia di conoscenza dell’interlocutore richiede un processo faticoso, ma garantisce il significato della sua e della nostra stessa esistenza.